Team H2politO 2015

Team H2politO 2015

20 dicembre 2014

Quando la mobilità sostenibile diventa emozionante: accade a Siracusa.

Sono passati 7 anni dall’ultima volta che sono stato nel mio liceo. Ricordo ancora quel giorno: era una mattina di metà Luglio ed insieme ad alcuni miei compagni di classe salutavamo i nostri professori per intraprendere da lì a poco una nuova avventura.
Sono passati 7 anni, dicevo. Oggi non è estate, è inverno e le vacanze di Natale sono vicinissime: è il 20 Dicembre. Mi sono svegliato presto, pensando: “Devo andare a scuola e non devo fare tardi!”. Ho preso l’auto e ho rifatto la stessa identica strada che facevo 7 anni fa. Con me ho sempre uno zaino, ma a differenza del passato non vi sono più libri e appunti, ma solo un computer ed una videocamera. Indosso una felpa nera, ma non è una felpa qualunque: sulla spalla sinistra c’è il logo del Politecnico di Torino, sulla destra la bandiera italiana, davanti e dietro un altro logo, un po’ stravagante rappresentante due mole coline colorate, con una scritta: Team H2politO. Questo logo è il motivo per cui oggi sono tornato nuovamente al liceo scientifico “L. Einaudi” di Siracusa.


La scuola è cambiata. All’esterno è rimasta praticamente uguale, ma dentro è cambiata. Anch'essa è diventata ormai tecnologica. Incontro uno dei miei ex professori, Salvatore Spallina che insieme alla mia ex professoressa di scienze, Concita Pitruzzello, mi hanno permesso di organizzare quest’incontro di oggi. Non si tratta di semplice orientamento universitario, oggi si parlerà di come un mondo migliore è possibile, anche al Sud, anche in Italia. Oggi si parlerà di futuro. Così ha detto il mitico Prof. Spallina: “A scuola vi insegniamo soltanto cose del passato. Oggi avete l’opportunità di dare uno sguardo al futuro”, ha ribadito introducendo me ed i miei due colleghi siracusani di Team Alessandro Tomasello e Pietro Sanfilippo, presenti all’evento.
Ecco, è proprio questa la nostra responsabilità: il futuro.  E’ forse l’obiettivo più nobile insito del Team. Oggi si è parlato di futuro, in particolare di quello dell’automobile, trattando l’argomento della mobilità sostenibile.  Senza la pretesa di avere le risposte in tasca, senza la presunzione di conoscere la verità,  ma con l’atteggiamento di chi socraticamente “sa di non sapere” e che per questo motivo non fa altro che porsi domande, studiare e lavorare “sodo” affinchè si arrivi ad una possibile soluzione.


Oggi io, Alessandro e Pietro abbiamo mostrato il lavoro del Team H2politO: i risultati, le tecnologie ed i sogni futuri, cercando di appassionare i 30 studenti presenti alla conoscenza, allo studio  e, perché no, alla ricerca. L’incontro di oggi non voleva insegnare nulla in particolare, se non il fatto che passione e coraggio sono due dei fattori più importanti nella vita di ogni studente (e poi futuro lavoratore).  L’incontro di oggi ha voluto solo dimostrare che il futuro siamo noi giovani, con le nostre idee fresche ed innovative, senza barriere e limiti, pronti a scommettere tutto su noi stessi. Studenti che potranno diventare dottorandi, professionisti, imprenditori  e che, poi, danno vita a start-up tecnologicamente avanzate. Questo è il futuro.
Al termine della presentazione, uno dei ragazzi presenti ha detto: ”Forse vale davvero la pena studiare se poi è possibile realizzare cose come queste”. Ecco, è questo il senso dell’Università, e fortunatamente il Politecnico di Torino, che noi rappresentiamo, l’ha capito. Questa semplice frase ci ha fatto capire quanto importante sia il nostro lavoro, quanto importante sia divulgare il nostro lavoro rendendo tutti partecipi del nostro sogno. Dare to change: osiamo il cambiamento…non più da solo, ma con tutti coloro che credono in noi.

Oggi è stato un giorno emozionate: abbiamo fatto qualcosa per la quale avrei pagato al liceo pur di partecipare. E spero che sia stato altrettanto emozionante anche per i miei ex professori, poter vedere che uno degli studenti da loro formato, abbia avuto la possibilità di crescere e di far parte di una delle più importanti eccellenze del Politecnico. Un’occasione per ribadire di tener duro e di continuare così nel loro importante e prezioso lavoro di formazione degli studenti: a loro vanno i miei più sentiti ringraziamenti per tutto ciò che mi hanno insegnato, poiché mi ha permesso oggi di poter essere un membro del Team H2politO. 



18 dicembre 2014

La progettazione meccanica: dal modello alla realizzazione di un componente

Come si progetta un componente meccanico? Questa non è affatto una domanda facile alla quale rispondere. Servono due delle qualità più importanti che un ingegnere deve avere, al di là della conoscenza, ovviamente. Esse sono la creatività ed una buona dose di pigrizia. Sembrerà strano leggere questa affermazione , ma proseguendo con la lettura saranno senza dubbio più chiare le ragioni che sono alla base di quest’ ultima frase.
Di certo con pigrizia non si intende la poca volontà nel lavorare o nel portare a termine progetti lunghi e complessi, ma la mentalità che porta ogni persona ad ottenere i migliori risultati possibili con il minimo sforzo, cercando di realizzare soluzioni tanto efficaci quanto semplici.
In questo senso, usando una “proporzione matematica”,  la pigrizia sta al progettista come la penna allo scrittore.

Il primo passo da eseguire consiste nell’osservare un problema e guardarsi intorno per accertarsi che altri non lo abbiano già affrontato, magari trovando anche delle soluzioni. Successivamente si passa alla realizzazione di un disegno, e quindi di un modello 3D, con una geometria  quanto più semplice possibile, ma che dia idea degli ingombri e delle possibili limitazioni della soluzione.
Primo modello di un supporto
 Il secondo passo è quello di decidere, in base alle proprie esigenze, il materiale e la metodologia di realizzazione del pezzo, onde evitare di definire geometrie particolari per poi scoprire, solo successivamente, che queste sono irrealizzabili o realizzabili a prezzi eccessivi. La pigrizia ancora una volta viene in aiuto all’ ingegnere facendogli valutare tutte le possibili problematiche del particoalre in questione prima di realizzarlo.
Così dopo aver realizzato il modello di base si sfrutta un arma potentissima messa a disposizione dei progettisti negli ultimi anni: la simulazione. Uno strumento  che consente di ottimizzare il più possibile le parti meccaniche progettate prima che esse vengano messe in produzione, al fine di risparmiare moltissimo tempo, denaro, lavoro, massae cosi via. Essa è tanto potente quanto complessa e può rivelarsi un’arma a doppio taglio se non utilizzata correttamente.
Alla base della simulazione infatti vi è il concetto di discretizzazione di un modello, che deve essere precedentemente realizzato con un CAD,, tramite un insieme di nodi ed elementi di varia geometria.  Questo metodo è detto metodo degli elementi finiti (FEM) e ha lo scopo di  simulare le caratteristiche reali del componente in un ambiente virtuale, per ottenere delle soluzioni approssimate a dei problemi normalmente descritti da equazioni differenziali. L’insieme di questi elementi forma la mesh del componente e può essere composta  da elementi: 3D come tetra (tetraedri) o Exa (Esaedri), 2D come quad (quadrati) o tria (elementi triangolari) nel caso di solidi con una dimensione trascurabile rispetto alle altre. Nel caso di geometrie in cui due dimensioni sono trascurabili rispetto ad una terza (cavi o travi), si utilizzano invece elementi 1D.
La mesh fà sì che i nodi siano connessi da elementi a cui vengono attribuite le proprietà del materiale selezionato, quali il modulo di Young E e il coefficiente di Poisson ν, che tramite la combinazione lineare di funzioni algebriche permetteranno di fornire, come output, delle deformazioni in base a definite condizioni al contorno, ad esempio. Questo permette di prevedere il comportamento del componente che si sta progettando in base ai vincoli e carichi che sono stati considerati.
Il punto debole di questo metodo è quello che si sta realizzando un modello ad elementi finiti di un componente che si potrebbe assumere come continuo, per questo per ottenere risultati “approssimati” tanto più vicini alla realtà quanto possibile, si usa “infittire” la mesh nelle zone di maggior interesse.

Mesh di un supporto
 La domanda che sorge spontanea è : “perché non inserire un numero altissimo di elementi in modo da avvicinarsi moltissimo alla realtà”?
Perché in base al numero di elementi utilizzati le matrici da elaborare dal sistema di calcolo assumono dimensioni sempre maggiori, ed in base al tipo di simulazione i tempi di calcolo possono essere linearmente o addirittura esponenzialmente proporzionali al numero di elementi utilizzati, il che porterebbe a tempi di calcolo insostenibili. E’ evidente quindi come un bravo ingegnere debba utilizzare il metodo degli elementi finiti per realizzare un modello che sia tanto accurato quanto rapido da simulare.

Stati tensionali di un supporto
 Dopo aver effettuato la simulazione è possibile valutarne le deformazioni, le reazioni vincolari, gli stress e tanti altri parametri, che possono aiutare a modificarne la geometria per raggiungere il miglior compromesso nel particolare progettato: funzionalità, semplicità, salvaguardando caratteristiche di resistenza e deformazione, e futuro costo di realizzazione. In questo modo è possibile realizzare, ad esempio, degli alleggerimenti nelle zone soggette a una tensione minore, e che quindi “contribuiscono” di meno alla resistenza strutturale.


Stati tensionali di un supporto "alleggerito"
 Infine si realizza la messa in tavola,  ossia la tavola quotata necessaria per la messa in produzione e voilà, il gioco è fatto. E’ solo necessario aspettare che la macchina utensile completi la sua opera per vedere il componente realizzato!


Messa in  tavola del supporto

Il supporto "vero" realizzato